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DIFFAMAZIONE E MASS MEDIA. COME DIFENDERSI?


Con l’avvento dell’era digitale, la comunicazione è diventata non solo più semplice ed immediata, ma anche un’arma a doppio taglio, troppo spesso difficile da gestire o controllare, dal momento che basta un click per raggiungere in pochi secondi un numero incalcolabile di persone.

Da questo punto di vista, il mondo del web è paragonabile ad una enorme cassa di risonanza, all’interno della quale rimbalzano infinite notizie di ogni genere, a prescindere dalla loro veridicità o meno.

In ragione di ciò, si innescano meccanismi pericolosi nel momento in cui il contenuto delle notizie diffuse è infamante e denigratorio nei confronti di una o più persone.

Il danno subito da questi soggetti, infatti, vittime loro malgrado di condotte diffamatorie a mezzo mass media, è molto grave, in quanto la circolazione dell’offesa è praticamente incontrollabile.

Si tratta di una piaga sociale estremamente attuale, che non dovrebbe essere in alcun modo sottovalutata, soprattutto in ordine alle conseguenze psicologiche sulla vittima, che di fatto subisce violenza.

Procediamo con ordine, in modo da chiarire non solo cosa si debba intendere per diffamazione, ma anche quali siano gli strumenti utilizzabili dalle vittime di questo reato al fine di tutelare la propria immagine e la propria dignità personale, nonché la propria reputazione morale ed eventualmente professionale, oltre che per ottenere il risarcimento dei danni subiti ingiustamente dai cosiddetti ‘leoni da tastiera’.

Cosa si intende per ‘diffamazione’?

La diffamazione è un reato previsto dal codice penale all’art. 595 c.p.c.: «1. Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente (art. 594 c.p. Ingiuria, ndr), comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a euro 1.032. 2. Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a euro 2.065. 3. Se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a euro 516. 4. Se l'offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza o ad una autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate».

In sintesi, i requisiti della diffamazione sono costituiti dall’offesa dell’altrui reputazione - da intendersi come una lesione delle qualità personali, morali, sociali, professionali di un individuo, che si concretizza quando è pubblicamente lesa l’immagine, la dignità, l’onore o il decoro di quest'ultimo - e dalla comunicazione con più persone, sia orale che scritta, contestuale o avvenuta in tempi diversi.

Ciò posto, ai fini della configurabilità del reato è sufficiente che il soggetto diffamatore abbia la consapevolezza di pronunciare o di scrivere una frase lesiva dell'altrui reputazione, accompagnata dalla volontà che la frase denigratoria stessa giunga a conoscenza di più persone. Non è necessario, poi, che la vittima sia stata palesemente identificata per nome e cognome, essendo sufficiente che essa risulti individuabile nell’ambito di una categoria ristretta di persone. In tal caso, sarà necessario che i soggetti destinatari del messaggio diffamatorio, ad esempio per motivi personali o di lavoro, siano a conoscenza di alcuni particolari della vita privata della vittima, quali possono essere l'occupazione lavorativa, il giorno del compleanno, la nazionalità, i tratti somatici … La lista è, per ovvi motivi, potenzialmente inesauribile.

Diffamazione a mezzo mass media. Peculiarità e strumenti di tutela

È assolutamente pacifico, oggi, che il reato di diffamazione possa configurarsi anche quando il contenuto diffamatorio venga propagato attraverso social network, siti internet, blog, ed altri canali telematici, in continuo aumento e dalla portata comunicativa sempre più socialmente impattante.

Il mondo dei ‘mass-media’, inteso come macro insieme di giornali, riviste, televisione, radio e reti telematiche, come ad esempio blog e social network, ormai permea la società in cui viviamo, tanto che il contatto con la realtà del mondo che ci circonda avviene, paradossalmente, per il tramite dei mezzi di comunicazione di massa che operano nella realtà virtuale.

Sia a livello individuale che a livello collettivo, infatti, le persone sono costantemente “bombardate” da messaggi, notizie ed informazioni provenienti da una moltitudine di fonti, che si susseguono incessantemente l’una all’altra, amplificandosi in un vortice di verità, inchieste, interviste e fake news che influenzano inevitabilmente attitudini, consumi, opinioni e stati d’animo.


Stante tale situazione in costante cambiamento, a differenza del reato ‘classico’, la nuova fattispecie di reato di diffamazione a mezzo mass media ha generato nuove problematiche da affrontare e risolvere, soprattutto in tema di individuabilità dell’autore del reato (cioè del soggetto diffamatore) e responsabilità penale del gestore di un sito internet o di un blog per i contenuti diffamatori ivi pubblicati da altri.

Quanto al primo aspetto, la giurisprudenza prevalente ritiene che l’attribuibilità del fatto al titolare dell’account da cui è stato scritto il commento diffamatorio non potrà essere l’unica prova, potendo lo stesso essere stato clonato od essere stato utilizzato da altri (cfr. Tribunale Pescara, 05/03/2018, n. 652). Al contrario, è stata ritenuta necessaria l’individuazione da parte delle autorità inquirenti del c.d. ‘indirizzo “IP”’, ovvero del codice numerico assegnato in via esclusiva ad ogni dispositivo elettronico, nel momento stesso della connessione ad una determinata postazione del servizio telefonico. Tale codice è considerato di fondamentale importanza, poiché consente di individuare la linea da cui è stato pubblicato il contenuto diffamatorio, permettendo di verificare la corrispondenza o meno a quella riconducibile al soggetto sospettato ed indagato. La giurisprudenza ha statuito in più occasioni che senza l'accertamento dell'indirizzo “Ip” di provenienza, al quale riferire il messaggio offensivo, non potrà scattare la condanna per il reato di diffamazione aggravata ex art. 595, comma 3, c.p., occorrendo invece una puntuale verifica da parte dell'autorità giudiziaria volta ad individuare il predetto indirizzo. Senza di esso, quindi, non si potrà ottenere il massimo grado di certezza possibile in merito all'attribuzione della responsabilità penale, anche se, in altre pronunce di segno opposto, è stato ritenuto possibile desumere la riferibilità soggettiva del messaggio diffamatorio anche da differenti circostanze fattuali, quali ad esempio i rapporti intercorrenti tra i soggetti coinvolti.

Quanto al secondo aspetto, la giurisprudenza si è tendenzialmente orientata nel senso di escludere la responsabilità del blogger o del gestore del sito, quantomeno in quei casi in cui questi non erano a conoscenza del commento offensivo presente sul portale gestito, oppure quando effettivamente erano stati informati ma avevano provveduto prontamente alla rimozione del contenuto contestato. In altre parole, se il blogger o il gestore di un sito, seppur sollecitati, non dovessero procedere a rimuovere un commento denigratorio della reputazione altrui, occorrerà valutare, ai fini della loro responsabilità penale, se detta inerzia sia stata dettata da semplice indolenza o se celi, invece, una volontà di adesione al commento diffamatorio controverso. In quest’ultimo caso, il blogger o il gestore del sito risponderanno di diffamazione in concorso con l’autore materiale del commento.

[Sul punto e a titolo di esempio, la Suprema Corte di Cassazione ha stabilito che: «Il blogger può rispondere dei contenuti denigratori pubblicati sul suo diario da terzi quando, presa cognizione della lesività di tali contenuti, li mantenga consapevolmente. In linea con i principi della responsabilità personale del blogger, è necessaria una verifica della consapevole adesione da parte di quest'ultimo al significato dello scritto offensivo dell'altrui reputazione, adesione che può realizzarsi proprio mediante la volontaria mancata tempestiva rimozione dello scritto medesimo» (Cass. pen., sez. V, 08/11/2018, n. 12546)].

Danni da diffamazione. Come ottenerne il risarcimento?

A seconda dell’entità e della diffusione del messaggio denigratorio, la diffamazione può generare un danno più o meno grave nei confronti della vittima, sia patrimoniale che non patrimoniale.

Al fine di fornire la prova del danno patrimoniale subito è senz’altro di fondamentale importanza produrre, in sede di giudizio, una certificazione del commercialista della vittima, il quale attesti la consistente riduzione dei redditi conseguente al fatto diffamatorio, nonché eventuale documentazione e richieste di testimonianze volte a dimostrare perdite di importanti occasioni lavorative, esclusivamente a causa ed in conseguenza dell’attacco diffamatorio subito.

Quanto ai danni non patrimoniali, invece, parte della giurisprudenza ha stabilito che quand’anche essi siano stati determinati dalla lesione di diritti inviolabili della persona, come ad esempio l’onore, comunque non potranno essere automaticamente riconosciuti, costituendo un danno-conseguenza che dovrà essere allegato e provato da chi ne domandi il risarcimento. La questione è, tuttavia, molto controversa, dal momento che non sono mancate pronunce di segno opposto relative alla stessa tematica. A prescindere da ciò, ai fini di poter aiutare il giudice a quantificare i danni, potrebbe essere molto utile fornire una perizia psichiatrica, che accerti i danni subiti dalla vittima in conseguenza della diffamazione. Va da sé che occorrerà comunque valutare, in ogni singolo caso di specie, la portata e l’entità della diffamazione subita.

Un’altra potenziale prova potrebbe essere fornita tramite testimonianze, in particolare quando si voglia dimostrare il danno alla vita di relazione subito dalla vittima, ovvero quando questa, a causa ed in conseguenza della diffamazione subita, non sia più in grado o abbia gravi difficoltà a relazionarsi con gli altri, sia a livello famigliare che a livello sociale.

Come quantificare il danno da diffamazione a mezzo mass media?

In ordine alla quantificazione del danno da diffamazione, è stato affermato dalla giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, che idonei parametri di riferimento possano rinvenirsi, tra gli altri, nel grado di diffusione dello scritto, nella rilevanza dell'offesa, nonché nella posizione sociale della vittima.

Sul punto e con riferimento ai danni non patrimoniali, è di fondamentale importanza quanto elaborato dall’Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano nel 2018. Al fine di individuare criteri omogenei di orientamento per la liquidazione equitativi del danno da diffamazione, ai quali parametrare le somme da riconoscere caso per caso, tale osservatorio ha analizzato 89 sentenze emesse, nel quadriennio 2014 - 2017, da vari tribunali in materia di diffamazione. Così facendo, esso ha individuato cinque differenti tipologie di diffamatorietà crescente (tenue, modesta, media, elevata, eccezionale), modulate tenendo conto dei parametri adoperati dalla giurisprudenza prevalente, quali appunto la notorietà del diffamante, lo strumento utilizzato per perpetrare l'illecito, l'eventuale carica pubblica rivestita dal soggetto passivo, la sussistenza o meno della successiva rettifica. Per la consultazione, si rimanda al sito dell’Osservatorio ( http://milanosservatorio.it/ ).

In conclusione, tenuto conto di quanto fino ad ora esposto, al fine di ottenere una effettiva tutela dei propri interessi, la vittima di attacchi diffamatori potrà agire sia in sede penale che in sede civile, nonché contestualmente in entrambe, ovviamente previo consulto di un professionista, in particolare del proprio avvocato di fiducia, così da scegliere la miglior strada percorribile.

Ed infatti, avendo la diffamazione rilevanza penale poiché prevista dal codice penale come reato, la vittima di attacchi diffamatori sarà libera di scegliere se sporgere querela (entro 3 mesi dai fatti) e costituirsi parte civile nel procedimento penale, richiedendo il risarcimento dei danni in tale sede, oppure se adire soltanto le vie giudiziarie civili, sempre al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti.

Si precisa, sul punto, che laddove la vittima dovesse decidere di agire soltanto civilmente, non le sarà preclusivo in alcun modo il fatto di non avere sporto querela nei confronti dell’autore del reato. Nell’ipotesi, poi, in cui la vittima abbia scelto di procedere sia civilmente che penalmente, l'eventuale esito assolutorio del giudizio penale, quand'anche definitivo, non avrà alcuna influenza nel giudizio civile di danno, laddove quest'ultimo sia iniziato anteriormente alla pronuncia della sentenza penale di primo grado e l'azione civile non sia stata trasferita nel giudizio penale, nell'esercizio di una libera facoltà del soggetto danneggiato.

In una società che si definisce 'civile', la violenza, in qualsiasi forma si manifesti, non può in alcun modo essere tollerata.

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